Voucher o non voucher, non è questo il problema

Editoriali
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È di questi giorni la polemica tutta bolognese sull’uso dei voucher da parte dello SPI Cgil. La vicenda sarebbe di per sé esilarante, se non andasse a toccare uno dei nervi più scoperti della regolamentazione del lavoro in Italia: la sua quasi totale mancanza di flessibilità.

Qui non abbiamo la pretesa di fare una colta disquisizione di carattere giuslavorista, vorremmo soltanto segnalare un problema vissuto in prima persona, per aprire un dibattito che possa servire ad affrontare la questione in termini un po’ più sereni, di quello che non è stato fatto fino a questo momento.

La vicenda è nota ci sono collaboratori dello SPI Cgil di Bologna, che vengono retribuiti con lo strumento più discusso ed esecrato proprio dalla Cgil stessa. Si tratta perlopiù di pensionati che si rendono utili al loro sindacato, arrotondando nel contempo le loro spesso magre pensioni, attraverso prestazioni più o meno occasionali. Da parte sindacale non si aggiunge altro, se non che lo strumento viene utilizzato per non pagare le prestazioni in nero. Dal che non è difficile dedurre che una parte di nero sia utilizzato, anche perché il tetto retributivo massimo per i voucher è di soli € 2500 l’anno.

Potremmo limitarci a fare la morale a questa nobile ed indispensabile organizzazione, di cui personalmente faccio parte, in quanto invalido civile, e dirle di non farlo più. In realtà, quello che ci interessa non sono le marachelle di questo o quello, ma sono le motivazioni e gli impedimenti strutturali che inducono a certi comportamenti, fino ad avere due pesi e due misure su troppe questioni.

Tutta la regolamentazione del lavoro è mutuata dalla grande impresa, ed in particolare dall’industria manifatturiera, per di più neanche non quella attuale ma, per molti versi, quella della prima metà del novecento. Si va a lavorare tutti alla stessa ora, al massimo si viene divisi per turno, si esce tutti alla stessa ora, si prende più o meno tutti lo stesso stipendio. Questo è il modello base su cui si fonda la normativa, tutte le altre sono variazioni, che però non intaccano la struttura essenziale.

Non sono un amante della statistica, per cui rischio di dire strafalcioni, in tal caso il lettore mi correggerà, ma ho sentito dire che ben 2/3 dei lavoratori italiani è impiegato nella piccola e media impresa. Ora, io mi sento di dire in base alle mie esperienza imprenditoriale, che questo modello è una gabbia che sta sempre più stretta proprio a questo tipo di imprese.

Evitiamo, per favore, di contrapporre i diritti dei lavoratori con le esigenze delle imprese, questo è un gioco al massacro che abbiamo già visto, che non ha mai portato a niente di buono. L’impresa non è una nemica del lavoratore e quest’ultimo non è un fancazzista che appena può cerca di fregare il padrone. L’intelligenza non sta nel generare i conflitti, ma sta nel ricomporli, magari anche attraverso soluzioni creative.

Le cooperative sociali stanno andando verso la stagione del rinnovo contrattuale, vediamo di fare della flessibilità un argomento centrale di questa importante fase, magari dimenticando l’idea per molti versi peregrina di equiparare i nostri lavoratori con i dipendenti pubblici, rispetto alla cui organizzazione lavorativa ci sarebbe tanto e poi tanto da dire.

In ballo c’è anche l’attuazione della riforma del Terzo Settore. Quanto lavoro nero si nasconde nelle pieghe di questo settore? Vogliamo chiamare la magistratura o l’ispettorato del lavoro? O vogliamo mettere in condizioni queste organizzazioni di operare alla luce del sole, senza ingessare le loro strutture e far lievitare in maniera abnorme i loro costi?

Flessibilità e diritti dei lavoratori, dovrebbe diventare un mantra per tutti noi, anche per i sindacati. Una questione rispetto la quale non dovrebbero porsi soltanto come controparte, ma diventare parte attiva di un rinnovamento e di una responsabilizzazione di tutti i lavoratori.

Maurizio Cocchi

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